La responsabilità da “contatto” del medico, prima dell’ultima riforma sanitaria
Storicamente, la responsabilità del medico, nell’esercizio della sua attività professionale, poteva fondamentalmente ridursi ad una alternativa classificazione per tipi: quella del medico che agisca come diretto contraente del paziente, secondo lo schema del più classico contratto d’opera intellettuale; e quella del medico che agisca alle dipendenze di una struttura sanitaria, indifferentemente pubblica o privata.
A lungo, nel secolo scorso, questa materia è stata regolata dal concorso o cumulo tra la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e quella extracontrattuale del medico alle sue dipendenze, sul presupposto che tra quest’ultimo ed il paziente non fosse mai stato concluso alcun tipo di contratto. La responsabilità del medico dipendente era sostanzialmente conformata alla regola, non codificata, che non ammetteva una terza figura di responsabilità risarcitoria, accanto a quella che avesse trovato origine nell’inadempimento di un contratto (art. 1218 c.c.), ovvero nella commissione di un fatto illecito (art. 2043 c.c.).
L’avvento del “contatto sociale” aveva invece profondamente mutato quella secolare tradizione, stabilendo che la responsabilità del medico ospedaliero dipendente avesse (anch’essa) natura contrattuale, pur in mancanza di un vero e proprio contratto tra le parti: inteso come “altro fatto” dal quale potessero originare obbligazioni ai sensi dell’art. 1173 c.c., il contatto socialmente qualificato col paziente avrebbe così giustificato la preesistenza di un rapporto obbligatorio rispetto al danno da risarcire, assumendo l’affidamento nella professionalità del medico dipendente come fonte di specifici doveri di protezione in applicazione degli artt. 1175 c.c. e 2 Cost. nel combinato disposto (43). Le due azioni di responsabilità “da contatto” ed extracontrattuale, per vero tra loro concorrenti, prevedevano termini differenti di prescrizione (44) ed un altrettanto differente onere probatorio, più complesso nel caso di responsabilità extracontrattuale, ove il danneggiato è tenuto a dimostrare che il medico abbia, con un suo comportamento colposo, in concreto causato o concorso a causare l’evento dannoso. La natura contrattuale della responsabilità avrebbe invece gravato il medico, al pari della struttura ospedaliera, dell’onere di provare di non aver adempiuto per una causa a lui non imputabile, e così di aver eseguito la prestazione con diligenza, dovendosi gli esiti lamentati dal paziente attribuirsi ad evento imprevisto ed imprevedibile, dunque a specifica causa non imputabile.
La responsabilità del medico dopo la legge 8 marzo 2017, n. 24: la inversione dell’onere della prova ex art. 2043 c.c.
Prima che intervenisse la legge 8 marzo 2017, n. 24, e per vero anche in vigenza della c.d. legge Balduzzi (45), la giurisprudenza era dunque prevalentemente orientata a favore della natura contrattuale della responsabilità civile dell’esercente la professione sanitaria, a ciò indotta dalla considerazione della irriducibilità della posizione del medico, quand’anche dipendente della struttura sanitaria, a quella di un qualsiasi altro soggetto giuridico, tenuto unicamente ad astenersi dal ledere l’altrui sfera giuridica, secondo l’antico brocardo alterum non laedere. Nel disciplinare la responsabilità del medico, l’art. 3 della legge Balduzzi aveva richiamato l’art. 2043 c.c., ma la ambigua formulazione della norma non consentì di dirimere, nel breve, la questione sorta sulla effettiva portata di quel rinvio che, per taluni, rispondeva soltanto alla preoccupazione di escludere (in ossequio al principio in lege Aquilia et levissima culpa venit) che la colpa lieve potesse comportare – nei casi d’esonero dalla responsabilità penale – la contestuale esclusione della responsabilità civile, nel generale contesto del “diritto vivente” in cui la responsabilità del medico veniva comunemente ricondotta alla responsabilità da “contatto” ovvero da inadempimento ex art. 1218 c.c., giammai alla responsabilità extracontrattuale dell’art. 2043 c.c. La ultima riforma in materia ha definitivamente chiarito che l’esercente la professione sanitaria risponde del proprio operato ai sensi dell’art. 2043 c.c., salvo che abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente (art. 7, comma 3, legge 8 marzo 2017, n. 24). Il medico operante presso la struttura, che il paziente non sceglie personalmente ma che interviene sul paziente perché inserito nell’organico del personale della struttura sanitaria, dunque risponde del proprio operato in applicazione dell’art. 2043 c.c., con tutti i vantaggi che dovrebbero conseguirne tanto nel riparto dell’onere della prova, quanto nel termine di prescrizione quinquennale (anziché decennale) del diritto al risarcimento del danno.
Rispetto al “diritto vivente” che ne aveva collocato la responsabilità nell’alveo dell’art. 1218 c.c., attraverso l’art. 7 della c.d. legge Gelli-Bianco il medico che agisce alle dipendenze dell’ente ospedaliero o della casa di cura privata, e dunque in assenza di rapporto contrattuale diretto col paziente, beneficia di una sostanziale inversione dell’onere della prova, poiché il paziente per ottenere il risarcimento non potrà limitarsi alla semplice allegazione dell’inadempimento, seppur qualificato, ma dovrà invece offrire la prova rigorosa della colpa professionale del medico convenuto. In definitiva, il medico, eccezion fatta per la ipotesi in cui, in qualsiasi forma, avesse concluso un contratto diretto con il paziente, avente ad oggetto la prestazione medica, risponde di eventuali inadempimenti a titolo di responsabilità aquiliana. Si tratta di una vistosa innovazione rispetto alla tradizionale consolidata giurisprudenza che al contrario ravvisava tout court la natura contrattuale del rapporto medico-paziente (dipendente della struttura, convenzionato, scelto dal paziente fra quelli messi a disposizione della struttura, et similia), fondato sulla figura del contatto sociale.
Il principio di irretroattività della legge, di cui all’art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile, comporta che la legge nuova non possa trovare applicazione, oltre che nei rapporti giuridici esauriti prima della sua entrata in vigore, ai rapporti sorti anteriormente ed ancora in corso di svolgimento, quando in tal modo se ne disconoscano gli effetti già verificatisi o si intenda privarne di efficacia le conseguenze attuali e future. Alla novella che ha riclassificato la responsabilità del medico, riconducendola al torto extracontrattuale (art. 2043 c.c.), è stata in giurisprudenza attribuita natura di norma sostanziale, non di mera interpretazione autentica dell’art. 3 della legge Balduzzi, così da limitarne la operatività alle sole condotte poste in essere dal sanitario a far tempo dall’entrata in vigore della legge di ultima riforma (1 aprile 2017) (46).
Nell’ambito dei giudizi di responsabilità medica, come affermato dalla Corte di cassazione nella sentenza numero 22520/2019 , gli esiti del procedimento penale a carico di un sanitario non possono in alcun modo vincolare le sorti del procedimento civile, che viaggia su un percorso autonomo.
L’errore medico invalidante può far sorgere il diritto al risarcimento del danno non solo del paziente, ma anche dei suoi parenti più stretti.
La Corte di Cassazione ha stabilito dall’invalidità anche solo parzialmente invalidante del congiunto possono infatti derivare sia il dolore per la menomazione del proprio caro, sia la necessità di un impegno di assistenza che determina in maniera apprezzabile un peggioramento delle abitudini di vita di chi la presta.In altre parole, il familiare di un paziente danneggiato può subire sia una sofferenza soggettiva che un mutamento peggiorativo delle proprie abitudini, ovverosia due pregiudizi che, se seri e gravi, devono essere risarciti, a prescindere dal fatto che l’invalidità del congiunto sia parziale e dal fatto che i familiari sui quali grava l’onere di assistenza siano più di uno.